la natura bella delle cose

by

barbara nappini**

English Version 

Scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1975 sui giovani del tempo: 

Vennero dei giovani, maschi e femmine mescolati insieme cameratescamente; e, con essi, un po’ di chiasso e allegria. Ma era tutta convenzionale, imparata alla televisione. Anzi, qualcuno di loro, accanto a una piccola automobile utilitaria lucida come uno specchio, prendeva gli atteggiamenti che hanno i giovani nelle réclames o delle automobili, appunto, o dei vestiti, o di qualche prodotto accessorio. Aveva negli occhi la stessa felicità totale, che impediva l’accesso a qualsiasi altro sentimento che non fosse quello di coincidere con un modello amato e senza alternativa: ma poiché questa felicità totale, naturalmente era falsa e innaturale, in fondo a quegli occhi restava un’ombra di vergogna e paura. Le parole allegre erano forzate. Ma nessuno se ne accorgeva. E così la recita era, da parte di tutti, perfetta (495).

Rispetto a ciò, la bellezza che si celebra in queste pagine, salvifica per lo spirito, si trova al polo opposto. Quella bellezza che ci schiude a un’esistenza autentica, in grado di dare profondità al significato, che si esprime non solo come sensazione ma come esperienza, che è prodotta da un atto creativo onesto e produce sua volta atti creativi; quella bellezza intrisa di verità ha una dimensione individuale e intima ma anche una collettiva, di profonda e spirituale connessione con gli ecosistemi e comprensione del vivente.

Consapevolezza estetica e ritorno della bellezza

Nella società estrattiva in cui viviamo, e in tempi atroci e violenti come questi, lo spirito è dimenticato in un angolo buio a languire, senza ideali ai quali aspirare, senza sentimenti alti e profondi, senza un sistema valoriale al quale riferirsi, senza un’idea per il quale vale la pena partecipare appassionatamente alla vita collettiva. Fatica a nutrirsi del basico meccanismo di ricompensa a cui lo vorremmo abituare: la sua fame permane e genera una scontentezza continua, inspiegabile e avvilente. 

Riconoscere la bellezza in ciò che abbiamo intorno è nutrimento: buono pulito e giusto per tutti. Lasciarla entrare negli occhi e depositarsi dentro noi, lasciare che sedimenti, che germini, che generi gratitudine per “la natura bella delle cose”. Si richiede un atto di volontà e di coraggio: si richiede di ascoltare i canti del vivente che non parla. 

Racconta Amitav Gosh come, nel suo La meravigliosa trama del tutto, Robin Kimmerer intrecci abilmente diversi modi di rapportarsi alle piante: come oggetti di indagine scientifica e come soggetti di canzoni e narrazioni. Kimmerer racconta 

la storia di uno scienziato che si reca nella foresta pluviale con una guida indigena la cui capacità di identificare esattamente molte piante lo impressiona così tanto che si complimenta con lui per la sua conoscenza: ‘Bene, bene, giovanotto, vedo che conosci i nomi di molte di queste piante». La guida annuisce e risponde con gli occhi bassi: «Sì, ho imparato i nomi di ogni arbusto, ma devo ancora impararne i canti' (107). 

Continua Ghosh

I non umani possono e devono parlare. Con il rafforzarsi della prospettiva di una catastrofe planetaria, è essenziale che queste voci non umane ritrovino un posto nelle nostre storie. La sorte degli umani, e di tutti i nostri parenti, dipende da questo (107). 

La sorte degli umani dipende dalla capacità di ascoltare i canti di chi non ha parole, dalla capacità di vedere ed essere grati per la bellezza che ci circonda, dalla capacità di nutrire con essa il nostro spirito e grazie a esso esistere. E r-esistere.

La resistenza dello spirito, nella cornice di una bellezza che abbracci la collettività, appare un orizzonte possibile. Un orizzonte nel quale a un’aggregazione nebulosa di consumatori, si sostituisca una moltitudine di attivisti, artefici e costruttori. La bellezza, dunque, a muovere e stimolare lo spirito, la bellezza che, oltre a essere espressione di un atto creativo, diventi anche potente motore creativo. 

Nella bellezza c’è una tensione, un’opportunità per tutti noi: affrancarci dalla condizione passiva e subita, non scelta, di consumatori compulsivi e trasformare l’esperienza individuale in collettiva, in atto ed espressione politici.

Per assumere una dimensione politica la fruizione della bellezza, e la sua esperienza in termini di influenza e dialogo spirituale, necessita anche della dimensione collettiva: in questo senso l’esigenza di bellezza “pubblica”, condivisa, come bene comunitario, presuppone la consapevolezza della dimensione collettiva, oltre a quella individuale, in quanto necessità dell’esistenza. La comunità può e deve esprimere una richiesta in termini di bellezza condivisa: per i paesi e le città, per il paesaggio, per gli spazi di lavoro, per i luoghi di ricreazione. 

In realtà sembra esserci una disabitudine alla richiesta di bellezza condivisa o meglio un’abitudine alla bruttezza dei luoghi pubblici. A meno che non siano considerati espressioni di potere, in un quadro nel quale ciò che non è “privato”, per l’appunto, è squalificato, trasandato, abbandonato a sé stesso per la mancanza di un’attenta gestione politica degli spazi “di tutti”. Attenzione: di tutti e non “di nessuno”. 

Ma la cura degli ambienti nei quali si vive, dei marciapiedi sui quali si cammina, delle luci che illuminano le strade, delle aiuole che fiancheggiano i viali, degli spazi dedicati allo sport, al gioco e all’aggregazione, ha molto a che vedere con il rispetto di sé stessi e della comunità di cui si fa parte: la bruttezza dei nostri luoghi esprime un giudizio sul nostro valore, sul valore delle nostre esigenze e scelte, sul valore del nostro posto nel mondo. 

E conseguentemente, va detto, influenza anche quello che riteniamo un nostro diritto chiedere o pretendere da quegli spazi. E i luoghi hanno – o meglio avrebbero – in potenza, capacità pedagogica, di educazione alla cittadinanza, alla partecipazione democratica e alla bellezza. Basti pensare al potere educativo che ha avuto l’arte sacra nei luoghi di culto per secoli. 

Tratta l’argomento nel suo libro L’Italia vuota Filippo Tantillo che ci racconta il suo viaggio nelle aree interne del nostro Paese, da nord a sud, ed evidenzia, in un passaggio a mio avviso illuminante, come l’arte (espressione dello spirito, bellezza intima e universalizzata) sia fuoriuscita dalla collettività in termini di richiesta e di fruizione e si sia trasferita anch’essa alla sfera privata.

[…] I consumi culturali cambiano rapidamente e si spostano dalla fruizione, dove il management ha una funzione insostituibile, alla produzione. Ne è dimostrazione che oggi si spende di più in dispositivi per fotografare che per andare al cinema e si usano più soldi in corsi di scrittura creativa che per comprare libri. Una nuova committenza pubblica deve porsi il problema di arrivare a sostenere anche direttamente la produzione artistica in sé, non solo nella sua funzione di riproduzione sociale. (…) Perchè il pubblico ritrovi la sua capacità di committenza c’è bisogno di ricostruire senso popolare intorno al valore dell’arte. (…) Il progetto di ricostruzione del paese, come tutte le rivoluzioni, ha bisogno di una sua estetica consapevole (112-13). 

La consapevolezza, anche una consapevolezza estetica, è chiave di volta per essere presenti a sé stessi nel condurre la nostra stessa vita, nelle scelte, nell’analisi di ciò che ci circonda e nelle risposte che siamo in grado di dare. Nella pienezza di una vita (anche) spirituale che è prerogativa di tutti noi e che non implica necessariamente professare una fede religiosa o seguire un culto, ma frequentare e coltivare anche quella sfera interiore necessaria e potenzialmente ricchissima che riesce a dare profondità all’esistenza compiendo il miracolo di farci percepire l’unicità della nostra stessa più intima sfera e, al contempo, di metterci in connessione con i nostri simili, col vivente, col cosmo. 

Un assiduo, esercitato, consapevole dialogo con lo spirito non ci isola infatti, semmai ci riconduce a una sensazione di profonda unità, di fraternità umile, di onesta relazione col tutto.

Si legge nella Carta della Terra, articolo 4 del Principio I: "Rispetto e cura per la comunità della vita», «Tutelare i doni e la bellezza della Terra per le generazioni presenti e future". 

C’è il futuro nella bellezza della Terra, c’è, nel tutelarla, una dichiarazione d’amore per il futuro.

Trasmissione della bellezza

Ne La metamorfosi delle piante Goethe scrive: 

Bellezza è perfezione con libertà. […] Chiamiamo bello un animale, quando ci dà l’idea che possa servirsi ad arbitrio delle proprie membra; non appena se ne serve davvero liberamente, l’idea del bello è inghiottita dalla sensazione di gentile, piacevole, leggero, superbo, ecc. Come si vede, la bellezza presuppone calma con forza, inattività con potere. […] Credo quindi di poter dire: chiamiamo bello un essere perfettamente organizzato quando la sua vista ci fa pensare che gli sia concesso, appena lo voglia, un uso libero e multiforme di tutte le sue membra, ecco perché la più alta sensazione di bellezza è legata alla sensazione di fiducia e di speranza (134).

Ecco, testimonianza eloquente di bellezza è tuttora per me il cavallo: «un essere perfettamente organizzato […]  la cui vista ci fa pensare che gli sia concesso, appena lo voglia, un uso libero e multiforme di tutte le sue membra».

Ho adottato questa definizione di bellezza, ben sapendo quanto ineffabile sia il concetto in sè, da secoli dibattuto ed espresso in modi anche radicalmente opposti, in funzione dell’area geografica, dei tempi, delle condizioni economiche e sociali… in definitiva secondo la cultura nella quale siamo immersi e che impregna ogni nostra concezione. 

Davide Hume nel suo Della regola del gusto, trattato di filosofia estetica, definisce la bellezza non come la proprietà di una cosa, bensì come uno stato percettivo del soggetto che guarda la cosa stessa, riassumendo tale concetto nella famosa formula "il bello è negli occhi di chi lo contempla".

Restiamo dunque legati a un’idea di bellezza che possa prendere la forma che ognuno di noi le attribuisce con alcuni esempi che possano essere comprensibili, conosciuti e condivisibili in questo Paese, in questi anni, uniti da un filo rosso che ricama l’esperienza individuale e collettiva degli spettacoli naturali e che riguarda l’intero consesso umano: quella sensazione di smarrimento e connessione dello spirito a un tempo di fronte al mare, al firmamento, ad alberi antichi, al deserto, al sorgere e coricarsi del sole…

La bellezza è necessaria perché c’è urgenza di speranza e, dove emerge la bellezza, là si vive meglio. Abbiamo spesso menzionato la bellezza nell’ambito del bene comune: cibo, acqua, aria, suolo, clima, fauna e flora. E nel partecipare della bellezza del vivente si sperimenta l’empatia, la com-passione – il patire con, il sentire insieme – quindi il ricongiungimento spirituale con il tutto a cui apparteniamo. 

Esprimono questo approccio alcuni modelli alimentari considerati “alternativi” che hanno accompagnato gli esseri umani per millenni e che, attraverso i secoli, hanno disegnato una bellezza come esperienza collettiva, modelli che includono pratiche ecosistemiche e che dialogano con la Natura accogliendone la complessità, in antitesi al all’imperante riduzionismo novecentesco. 

(…)

Ma quanto si intreccia la bellezza col modello di produzione? Penso alla mia terra, la Toscana: non appena la nomino appaiono nella mente di tutti cipressi, colline stondate, olivi e vigne, ma anche siepi e casali, strade alberate e chiese. Quel paesaggio iconico e bello, armonioso e dolce, malinconico nelle nebbie umide dell’inverno e operoso nella luce estiva, è il risultato dell’interazione secolare degli esseri umani con l’ambiente che li ospita. Le attività antropiche e necessarie alla sopravvivenza delle comunità hanno smussato le colline, dissodato terreni sassosi, lasciato ampie aree boscate e siepi a delimitare le proprietà e piantato cipressi come cartelli stradali a indicare la via. La storia agricola toscana è stata fortemente connotata dalla mezzadria: un sistema agrario che ha radici antiche, ma il cui sviluppo significativo si è verificato tra la fine del 1800 e la metà del secolo successivo. Un periodo nel quale la maggior parte delle terre veniva gestita attraverso questo tipo di rapporto tra il proprietario terriero e il contadino laddove il secondo, il mezzadro appunto, lavorava i terreni del padrone. Una forma arcaica che imponeva al contadino una condizione di dipendenza praticamente totale. 

La riforma agraria del 1950 in Italia determinò cambiamenti significativi nella distribuzione della terra, ma il paesaggio disegnato dalla mezzadria si rintraccia comunque nelle alberature al margine dei campi: due filari vicini di vite maritata all’acero campestre, ma anche gelsi, ulivi, salici (detti “salci”, i cui giovani rami servono per le legature) e alberi da frutta. E poi piccoli campi circondati da fossi o terrazzamenti, con muretti a secco e tabernacoli. Il tutto mantenuto nei decenni grazie al faticoso, assiduo e necessario lavoro di intere famiglie e comunità di mezzadri che quei luoghi li abitavano. 

Una connessione istintiva legata certamente a una frequentazione assidua e non intellettualizzata, alla cultura del necessario, tipica del mondo contadino, un mondo dove il consumo compulsivo era sconosciuto e senza ragion d’essere. 

(…)

In quella civiltà rurale era istintivo tutelare la natura, sebbene in certe aree modificata e addomesticata, sia come fonte indiscutibile di cibo, quindi di sopravvivenza, per le popolazioni, sia come entità sconfinata e potente, in grado di distruggere con una grandinata mesi di lavoro di centinaia di esseri umani, di ridurre intere aree alla sete e alla fame con stagioni particolarmente siccitose o di travolgere interi borghi e paesi con frane e alluvioni. Un rapporto con la natura connotato da una sorta di timore reverenziale e dalla consapevolezza di non poterla controllare, ma, al contempo, da una confidenza rispettosa che ha prodotto bellezza. 

(…)

Tutta quella bellezza è anche espressione biodiversità, per la consapevolezza empirica che essa fosse capacità di adattamento e garanzia di sopravvivenza; tutta quella bellezza era uno sconfinato patrimonio genetico ma anche tutela della fertilità del suolo e contrasto al dissesto idrogeologico, con i casali disseminati nei luoghi più adatti e abitati da famiglie allargate e numerose che si prendevano cura della terra; tutta quella bellezza era anche riserva di caccia in un mondo nel quale non c’era alternativa alla convivenza con il selvatico e la selvaggina rappresentava un’integrazione del frugale regime alimentare; tutta quella bellezza era anche creato, e quindi espressione del sacro, in una società fortemente permeata di valori cattolici, nella quale si poteva ravvisare una sostanziale unitarietà culturale e valoriale. Il paesaggio, il lavoro che lo ha modellato, la sensazione di bellezza che trasmette e che agisce direttamente sullo spirito. Aprendolo. Salvandoci.

Cibo, corpo, donne, e libertà

Il corpo è manifestazione fisica e sacra ma, al contempo, anche “naturale” della nostra esistenza. Il corpo ci accomuna tutte e tutti: la capacità di generare, di crescere, di agire, di cambiare e rigenerarsi, la fragilità ma anche la resistenza, la capacità di condizionare il nostro cervello e di esserne condizionato, l’efficacia nel raccontare, tutti questi poteri rendono il corpo un terreno di conquista molto attraente. 

Tra il 1400 e il 1600 la caccia alle streghe fu un “esercizio” di dominio: le donne accusate di stregoneria, infatti, spesso erano ostetriche (levatrici) o farmaciste (alchimiste), avevano dunque un legame molto forte col corpo e un’ampia cono scenza della natura e delle erbe medicamentose, erano capaci di padroneggiare veleni e sostanze psicotrope, erano quindi rivoluzionarie e pericolose (serve di Satana). Assoggettarle a partire da questa misteriosa e potente relazione con la natura e col corpo era necessario così come do minarne la volontà e l’indipendenza per conformarle, umiliare violentemente i loro corpi fu lo strumento. E resta tuttora fortemente simbolico quel processo che annientava ciò che non si la sciava dominare, ciò che risultava difforme, con esecuzioni spettacolari e atroci che fungevano da monito per tutti. 

Negli anni Sessanta il corpo diventa invece visibile strumento di cambiamento: in particolare, di nuovo, il corpo delle donne che pubblicamen te rivendicano il diritto a una sessualità che pre scindesse dalla procreazione, il diritto al piacere! Negli stessi anni, l’altra lotta prettamente femmi nile era quella per il divorzio: tema che interessa va soprattutto le donne, prigioniere di una dina mica nella quale non avevano alcuna possibilità decisionale a fronte di una libertà maschile tota le, e soprattutto di un’approvazione sociale alla qualsivoglia condotta dei mariti. Luciana Castel lina, militante del Pci, fondatrice del Manifesto, deputata, europarlamentare, scrittrice, giornali sta, ricorda oggi che “Le persone che parlavano d’amore nelle piazze, durante i comizi. L’amore era diventato un diritto: è stata una rivoluzione”

Una rivoluzione culturale e politica nella qua le il corpo era presenza determinante: fare poli tica senza gioia, senza piacere, senza corpo, è un dominio del potere per sé stesso. Triste. 

In questo quadro le donne, abituate a non de tenere il potere, sono state fondamentali: hanno messo al centro l’elaborazione di un sapere cor poreo che era una narrazione “altra”, diversa, difforme per l’appunto, in grado di rappresentare storie femminili che esse stesse non avevano mai raccontato prima. In quegli anni molti uomi ni accompagnavano questa “rivoluzione”: anche loro con i loro corpi, meno vessati, meno oscura ti, meno “riottosi”, come strumento politico nelle piazze e nei cortei. 

Separarci dalla natura e dal corpo per instaurare con essi un rapporto “intellettualizzato”, oltre che fonte di sofferenze indicibili, è anch’esso esercizio di potere. Considerare la natura e il corpo come mezzi di produzione ci porta a misurar li nella loro efficienza, conformità e produttività. La zootecnia ne è un esempio, lo abbiamo visto. Trasformare gli animali in macchine che produ cono alimenti ne nega l’etologia e il sentire, ne amministra il diritto di esistere e ne gestisce le modalità. Anche i nostri corpi sono tenuti alla performance e alla competizione: intorno al mito di un corpo “competitivo” è stato costruito il business della cura della forma fisica, del super food o dei cibi sani. Ma si tratta di nuovo della risposta alienata a un bisogno indotto: Spa, centri benes sere, chirurgia estetica, palestre, boutique di cibi iperproteici e integratori, sono un altro modo per generare profitto, non esattamente per prendersi cura. 

Nella nostra società il corpo deve essere con trollato: non ascoltato e non guardato per come si esprime. Questo atteggiamento è metafora del controllo sulla natura e quindi, della società e del suo potere. 

Il corpo, come la natura, è mercificato, contaminato e venduto: al corpo, che per sua fisiologi cambia continuamente, viene invece impedito di evolvere e invecchiare e tanti sforzi sono profusi per cristallizzarlo nella sua forma più efficien (produttiva, appunto) che in genere corrisponde ai primi decenni della nostra vita. Dopo, l’efficienza del corpo, cioè la sua produttività, degrada e questo appare un processo inaccettabile. Da qui la necessità di intervenire a ogni costo per renderlo, o almeno farlo apparire, ancora performante. Oppure nasconderlo, censurarlo. 

Al contrario, è nel recupero delle forze naturali che celebrano l’esistenza, nei caratteri sensuali ed estetici estranei alla competizione, connaturati alla creazione, che si genera un’idea di gioiosa rivoluzione, di libertà. 

E fa così paura la libertà degli esseri umani (del loro corpo, della loro coscienza) che lo spirito del capitalismo ridicolizza l’idea della liberazione della natura e tenta di liberarsene etichettandola come nostalgia o utopico idealismo. Ma una so cietà libera potrebbe fondare i concetti scientific su un’esperienza – anche corporea – della natura come complesso vivente che ci ospita. 

Il legame tra la liberazione dei corpi umani e la liberazione della natura si esprime anche nell’importanza che la consapevolezza ecologica riveste oggi nei movimenti che tendono all’equità e quindi alla trasformazione sociale. L’intrusione violenta delle attività produttive e delle loro conseguenze impattanti sugli ecosistemi è inseparabile dal capitalismo.

(...)

Il corpo ci fa sentire fame: ha bisogno di cibo per essere corpo, per crescere, per stare caldo, per pensare. Una fame animale, ancestrale, che ci condiziona, nel nutrirci, più di qualsiasi informazione razionale, più della più audace campagna marketing, più del buon senso. La fame dribbla i costrutti culturali e ci rende bestiali. Meno male. 

Abbiamo poi fame di cibo per nutrire la nostra mente e il nostro cuore. 

Tanti tipi di fame diversi: troppo spesso ci affrettiamo a calmarla senza soffermarci, ci affret tiamo a distrarci per non perdere tempo, per non perdere. 

C’è però anche chi si sottrae alla competizione, alla corsa sfrenata e senza meta, chi decide di fermarsi ad ascoltarla invece quella fame, nelle sue diverse forme. Si allontana dalla caoticità, cambia percorso e passo e le presta attenzione, la indaga, la cura: è fame di cibo buono pulito e giusto. È anche fame di sapere, di pace, di colori e bellezza. Fame di libertà

(...)

È pur vero che il primo slogan fortunato di Slow Food è stato “Difendere il diritto al piacere”: il nostro fondatore, Carlin Petrini, di cui mi ritengo amica ma soprattutto allieva, ha trasformato il piacere in un diritto. Un piacere generato dalla sensorialità, quindi dal corpo: non tanto e non solo però in un’ottica edonista, che pur fa parte del dna di Slow Food, ma soprattutto in an titesi alla funzionalità, all’efficienza, alla produttività. In chiave rivoluzionaria! La connessione col piacere che si produce nella dimensione fisic della nostra corporeità, è un diritto di tutte e di tutti, e ad esso si dedica tempo, energia e un’attenzione consapevole sebbene esso, in sé per sé, non sia – in termini industriali – produttivo. O magari, proprio perché non produttivo, è un diritto inalienabile. E perseguirlo è gioiosamente rivoluzionario! 

(...)

Dal riappropriarsi della libertà del corpo attraverso un piacere consapevole, inizia una rivoluzione che mette il cibo al centro.

Allora oggi la logica che guida il sistema alimentare di produzione, distribuzione e consumo, non può essere che “bio”: bio, nella sua accezione più ampia, che supera le pratiche agronomiche e le certificazioni, ma che afferisce al suo significato primigenio, cioè imperniata sulla vita. 

Vivere un’esistenza gentile che ci ricordi di essere umile parte della natura, può rendere li beri. Senza mortificazione, anzi, con il sollievo che deriva dal mettere in prospettiva, dal ridimensionare.

Entrare nella dinamica del sostegno, della solidarietà, dell’ascolto e della ricchezza delle diversità, potrebbe essere un passo verso l’uguaglianza, l’equità. 

Determinare il proprio corpo, anche attraverso un cibo che nutra senza depauperare, senza sfruttare, e aver cura della propria coscienza, anche attraverso la cura del prossimo, aiuta a ricomporre i frammenti della nostra dimensione esistenziale disgregata. 

Il corpo è bello per definizione. Perché esiste e ci permette di essere e di fare, di sentire piacere e di creare le cose. Il corpo ci consente di vivere nella natura, la coscienza ci consente di percepirlo e di vederne la bellezza. 

Di vedere la bellezza.

Works Cited

Ghosh, Amitav. La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi. Neri Pozza, 2021.
Goethe, Johann Wolfgang von. La metamorfosi delle piante. Edited by Stefano Zecchi, Guanda, 1983.
Hume, David. Della regola del gusto. Edited by Gianni Paganini, Bompiani, 2009.
Pasolini, Pier Paolo. Petrolio. Einaudi, 1992.
Tantillo, Filippo. L’Italia vuota. Donzelli, 2020.



**Questo è un estratto modificato dal libro La Natura Bella Delle Cose. Il libro completo è disponibile qui.

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